Voleva essere un duro

Lo spettacolo raccapricciante che ha recitato la terna arbitrale nella serata di ieri, nella partita L.R. Vicenza- Novara FC mi ha fatto svegliare con certi pensieri.
Il lavoro che si sceglie di svolgere dipende dalla consapevolezza del proprio talento. Spesso banalmente considerato necessario per la sopravvivenza economica, ci si dimentica (o si vuole dimenticare) che il vero ricco è colui che viene pagato per ciò che ha voluto scegliere di fare -che incarna ciò che sente di essere - dopo tutto il percorso di studi e magari dopo molti sacrifici. Spesso chi ha la fortuna di abbracciare un lavoro che sognava di fare, abbraccia la sua passione e ciò significa che ci metterà tutto se stesso per riuscire al meglio nell’impresa senza smettere di aggiornarsi e superarsi, sbagliando e ripartendo.
E poi ci sono i buchi nell’acqua. Quelli che fanno un lavoro per caso, anche rispettabile e popolarmente ambíto. Quelli capitati lì per fortuna o per agganci, per il classico rumor “Ci metto io una buona parola”. Ecco, quelli. Diciamoci la verità, se non nasci con la vocazione di fare il medico non puoi farlo neanche con tre lauree in mano e tanta buona volontà. Se non ti appassiona strappare i denti e sistemare bocche non sempre profumate trovando la soluzione migliore e rispettando le arcate dei pazienti non lo puoi fare solo per il guadagno. Un installatore di caldaie che non sa che la sua macchina deve essere attaccata alla canna fumaria è meglio che cambi lavoro prima che faccia congelare un nonnino e arrabbiare l’amministratore di condominio. L’insegnante che non ammette che ogni alunno ha il proprio talento ma che per cercarlo deve impegnarsi un po’ e che fomenta false illusioni su capacità inesistenti, coltiva fallimenti e delusioni sicure e incrementa quel maledettissimo “Sono più bravo di te”. Inutile raccontare fandonie solo per evitare scontri e confronti genitoriali: il compito della scuola è creare ed aiutare ad usare il pensiero critico, soprattutto verso se stessi e non solo insegnare a scrivere perché quello -perdonatemi maestre- lo possiamo fare tutti. Poter percepire la propria auto-consapevolezza è di vitale importanza anche per evitare di affossarsi in situazioni tossiche di ogni genere e per combattere il pericoloso e diffuso analfabetismo funzionale ovvero l’incapacità di comprensione ed espressione di concetti, sentimenti, opinioni.
Limiti e talenti sono aspetti umani individuali che tutti abbiamo e che meritiamo di conoscere, per il nostro benessere e per la nostra felicità. E invece il mondo è popolato da persone che si credono chi non sono e che stanno in posti in cui non dovrebbero essere.
L’arbitro che non sa comunicare con i suoi collaboratori in maglia gialla, che non ha la visione sportiva, la diplomazia comunicativa professionale, che esaspera le punizioni, che usa cartellini come sentenze -soprattutto se sbagliate e presuntuose -, qualcuno lo deve fermare. Ovvio poi che la società magari viene multata per un pensiero troppo sincero verbalizzato ad alta voce o che tifosi e calciatori di ambo le parti, con il sangue amaro, sono costretti a vedere e giocare una partita totalmente rovinata sportivamente. A mettere in discussione il “talento” arbitrale lo devono fare quelli che hanno scelto di fare quel lavoro, in questo caso l’Associazione italiana Arbitri.
Spesso mi capita di pensare che alcune persone vestano gli abiti di un lavoro solo per pareggiare i conti con il proprio passato, per rancori o ferite che ancora non sono guarite, solo per avere il potere che non hanno mai avuto ed abusarne senza nessuna logica contro chi reputano fastidioso: il più bello, il più coraggioso, il più istintivo o semplicemente quello più in gamba di loro.
La scuola rimane poco sincera. La maggior parte degli alunni “sta nel mezzo” e da quel mezzo, nell’età evolutiva, tutti vogliono uscirne perché è un posto brutto semplicemente perché nessuno ne parla : della mediocrità non si parla, come del sesso e della morte. Si parla delle eccellenze, si aiutano i disagiati ma i mediocri sono quelli considerati né carne né pesce, sono persone normali, quel concetto che con esasperazione della tolleranza all’inclusione abbiamo reso temibile. Così tutti crescono con il voler essere “qualcuno” (nell’eccellenza o nel disastro) e quando lo sono, lo sono male. Vogliono essere i duri. Ma i veri duri sono quelli che sanno che c’è sempre qualcuno più bravo di loro ed è proprio da quel qualcuno che imparano, senza invidia né presunzione. Lo seguono senza vergogna, senza bisogno di nascondersi.
Nel frattempo i “bravi” veri continuano a scalare montagne e quelli che non reggono l’essere nel mucchio, invece che seguirli ed ammirarli, li fanno volutamente inciampare perché con il “cartellino” in mano sono tutti convinti di essere i migliori e se non lo sono loro, non lo deve essere nessun altro. Ma lo sapete alla fine chi vince, no?